Un "birrificio paese" nel quale tutti entrano liberamente, chiacchierano, assaggiano. Questa la visione che Fausto Marenco e Massimo Versaci hanno della loro "creatura", ovvero Maltus Faber, in poltrona nella terza serata della seconda stagione dei martedì “In salotto col birraio” al Baladin Milano.
Fausto Marenco e Massimo Versaci intervistati da Alessio "Islaz" Franzoso |
Birraio il primo, venditore il secondo. Maltus (ossia l'orzo) e faber (vale a dire colui che produce, anche se - parlando di Genova - inevitabile anche l'accostamento al soprannome con cui era noto in città Fabrizio De Andrè). Un blucerchiato e un rossoblu. Due diverse facce di una stessa moneta, insomma, in circolazione sul mercato delle artigianali sin dalla "prima ondata" dei birrifici (fu il 190esimo nato in Italia, quando ormai abbiamo sfondato oggi il muro degli 800).
All'interno di un'area industriale un tempo stabilimento della Birra Cervisia (all’interno del birrificio allestita anche una mostra permanente di materiale storico con bottiglie, tappi, bicchieri, foto, libri e pubblicità d’epoca), Maltus Faber dà continuità a una vocazione, ma con un'interpretazione tutta propria. Poco avvezzi – per loro stessa ammissione - alle sfaccettature più “modaiole” del mondo delle artigianali, la semplicità è il loro marchio di fabbrica. Amanti degli stili belgi “con poche divagazioni”, danno vita a una linea di birre in cui non trovano spazio spezie o frutta, ma al massimo caratteristiche luppolature. 100mila litri l'anno, la produzione: “E non abbiamo nessuna intenzione di espanderci”, ammettono serenamente.
“Ci danno dei 'vecchi', ma siamo in un mondo che è nato ieri! - ha rilevato simpaticamente Marenco – La verità è che ormai birra artigianale vuol dir tutto e nulla... ma è positivo che la gente stia cominciando a prendere coscienza. Spero siano sempre meno quelli che la fanno per mero business... Le beerfirm? In Belgio ci sono sempre state... qui assistiamo al solito 'snaturamento' all'italiana. Il discrimine, a mio avviso, è se aggiungono qualcosa al panorama complessivo, e anche se uno non ha l'impianto suo... non è così determinante. Se però l'obiettivo è unicamente quello di far volumi e business, il mondo birrario può far tranquillamente a meno...”.
Foto by Luca Galuzzi |
Nel corso della serata, la platea della cantina di via Solferino ha avuto modo di conoscere la “Blonde Hope”, una blond ale da 5,5 gradi, e la “Triple”, strong ale da 8. Due esempi delle famose “divagazioni” di cui sopra, ovvero classiche in stile belga marcate però da una luppolatura in dry hopping (più corpo naturalmente per la seconda, anche se con identico hibu a 36, rimane amaricata in modo meno evidente). Poi è arrivata in sala la “Imperial stout”: “Una birra da 7.8 gradi che o piace oppure non piace per nulla – ha concluso il birraio – Da circa un anno abbiamo introdotto questo primo esemplare della tradizione anglosassone e... forse è l'unica birra a cui non rinuncerei in questo momento, nel nostro catalogo!”.
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